Il nostro viaggio inizia da Johannesburg, dove si trova la nostra auto; abbiamo trascorso qui un paio di giorni per prepararla e per fare la spesa e oggi abbiamo deciso di dedicare una giornata alla visita di Johannesburg, si perché siamo transitati tante volte da qui, ma abbiamo sempre evitato di avventurarci in città; questa volta però, spinti dalla curiosità, abbiamo voluto visitarla.

Johannesburg è una metropoli dai forti contrasti dove ville hollywoodiane si alternano a quartieri incredibilmente degradati, che fanno pensare di essere finiti nella ricostruzione del set cinematografico di “1997 Fuga da New York”, ma purtroppo questa è vita vera.

Johannesburg è una megalopoli si stima abitata da circa 7 milioni di abitanti, ma il numero esatto nessuno lo conosce; fonti ufficiali stimano che la popolazione abbia una numerosità dai 4,5 ai 5 milioni di abitanti, ma basta guardare la vastità della sua estensione per capire che è un dato sottostimato, inoltre le enormi township sono difficilmente censibili, alcuni parlano addirittura di 25 milioni di persone, ma questo dato è sicuramente un po’ troppo alto.

Il quartiere delle ville degli abitanti della upper class di Johannesburg, molti dei quali si sono arricchiti con le miniere di diamanti, si presenta come una serie di tranquille vie e viali alberati, dove enormi e lussuose abitazioni sono protette da alte mura di cinta e da recinti elettrificati; una sorta di paradiso blindato.

Questo in passato era un quartiere abitato esclusivamente da bianchi, con la fine dell’apartheid adesso anche alcuni neri possono permettersi di vivere qui; qui si trova anche la villa dove visse Nelson Mandela, con la sua terza moglie, da quando divenne presidente del Sudafrica.

A Downtown invece ci sono diversi edifici coloniali, a volte purtroppo un po’ trascurati, che sono parzialmente nascosti dagli imponenti edifici moderni in vetro e acciaio; questi ultimi sono sorti grazie ai soldi delle ricche imprese minerarie, che sfruttano il ricco sottosuolo sudafricano.

L’emblema di downtown è ovviamente la diamond tower, un grattacielo che ricorda vagamente le sfaccettature di un diamante intagliato.

Poco distante da qui si trovano ancora alcuni vecchi negozi, che conservano ancora le insegne che venivano utilizzate durante il periodo dell’apartheid, in cui si ricordava che questi esercizi erano unicamente per la popolazione nera.

In questi vecchi negozi la gente viene ancora per comprare soprattutto i prodotti che vengono utilizzati nella medicina tradizionale; nonostante Joburg infatti abbia l’ospedale più grande del continente africano, la medicina tradizionale continua ad essere praticata e seguita da moltissime persone.

Abbiamo visitato uno di questi negozi, dove si può comprare un po’ di tutto, ci sono molte stuoie arrotolate, ciotole di tutte le dimensioni, radici, cortecce, semi e baccelli di diverse piante ma anche parti di animali, soprattutto corna e zampe di antilopi.

Una parte importante del negozio è dedicata alle diverse stuoie che ricoprono un ruolo importante per alcune persone; ci sono stuoie di diverse tipologie, ognuna di esse viene utilizzata per usi specifici.

Principalmente le stuoie servono per i diversi passaggi della vita delle persone: ci sono piccole stuoie che vengono utilizzate per la nascita di un bambino, stuoie più grandi che servono per il passaggio alla fase adulta; altre ancora che servono per adagiarsi durante le fasi di una malattia ed infine le stuoie che vengono utilizzate durante i funerali.

Siamo gli unici bianchi nel negozio, ma la gente sembra non fare caso a noi, mentre la nostra guida ci spiega come vengono utilizzati alcuni oggetti; scattiamo diverse fotografie, dopo aver chiesto se fosse permesso, ci è stato detto che potevamo fotografare tutto quello che volevamo, eccetto le persone.

Da qui ci spostiamo verso Hillbrow, questo quartiere ha visto tempi decisamente migliori in passato; una volta infatti era una bella zona residenziale abitata dai bianchi, ma venne completamente abbandonata quando salì al potere il governo nero; da quel momento venne invaso da spacciatori e gente dai dubbi affari.

Oggi Hillbrow si presenta oggi come un quartiere molto degradato, la polizia è presente ad ogni angolo, per cercare di riportare la zona a livelli accettabili di vivibilità, operazione che non sembra funzionare particolarmente bene; gli spacciatori sono presenti ad ogni semaforo e offrono la droga a chi si ferma al rosso; qui i furti sono all’ordine del giorno e non è il caso di avventurarsi da queste parti da soli ed è meglio chiudersi in auto e non aprire i finestrini.

Gli edifici, che un tempo erano residenze o uffici, sono in uno stato impossibile da descrivere: la maggior parte dei vetri sono rotti, in alcuni palazzi interi piani sono stati sventrati; in strada la gente accende falò con quello che capita, siamo in inverno e le notti sono fredde.

Alcune persone si aggirano per il quartiere camminando come se fossero zombie, non si capisce se sono ubriachi o drogati o semplicemente sono persone che hanno smarrito la speranza di una vita migliore.

La nostra guida sintetizza tutto questo in una frase “Hillbrow, la Hollywood che non c’è più” (“Hillbrow, Hollywood that is no more”).

Per la città sfrecciano molti minibus, sono il trasporto pubblico di Johannesburg ma, a differenza dei matatu in Kenya o dei dala dala in Tanzania, qui sono tutti uguali: sono bianchi e sulle fiancate hanno disegnata la bandiera del Sudafrica.

La nostra guida ci spiega che i passeggeri che devono andare da qualche parte indicano con un gesto ben preciso la destinazione al conducente del pulmino, in questo modo costui sa se fermarsi e prendere a bordo il passeggero oppure no.

La gestualità è un linguaggio silenzioso ma ben preciso, ad esempio un indice alzato significa che si vuole andare a Downtown, l’indice rivolto verso il basso significa invece “local”, la mano con il palmo rivolto verso l’alto e che sembra impugnare una palla significa che la destinazione è Orange Farm, mentre creare una C con indice e pollice significa Cosmo City.

Questi sono solo alcuni dei gesti, ma ce ne sono molti altri, ognuno per indicare un luogo ben preciso in città.

In auto passiamo in una via dove lavano i pulmini, ce ne sono diverse decine e la nostra guida si dice che chi guida il pulmino non lo lava, ma lo fa fare a qualcun altro, come chi possiede il pulmino non lo guida, così possono lavorare in tre e aggiunge “qui si fa così”, e, aggiungerei, così funziona in tutta l’Africa e questo è una delle cose belle di questo continente.

Ma una visita a Johannesburg non può dirsi completa senza un giro per Soweto, il quartiere dove è nato e cresciuto Nelson Mandela e dove avvennero le prime rivolte contro il regime dell’apartheid.

Quindi partiamo verso sud ovest e, lungo la strada, vediamo alcuni macchinari arrugginiti, la nostra guida ci dice che quelle erano le vecchie miniere presenti proprio qui a Johannesburg; la città deve la sua fondazione, e la crescita della sua popolazione, proprio alla presenza delle miniere d’oro.

Arriviamo a Soweto, la sua estensione è enorme, è impossibile vederne i confini; al suo interno si possono identificare una serie di sobborghi o di township minori, ma i confini a volte sono difficili da identificare.

Township è il termine con cui in Sudafrica e in Namibia vengono identificate le baraccopoli; mentre il termine “Soweto” significa “South Western Townships” ossia le baraccopoli dell’area sudoccidentale.

Soweto è la più grande township del Sudafrica ed ha avuto un importante ruolo nella lotta all’apartheid, la popolazione di questa “città nella città” è di circa un milione di persone ma è difficile conoscere il numero esatto dei suoi abitanti.

Da quando non c’è più l’apartheid, che aveva posto non poche limitazioni ai suoi abitanti, tutti neri, Soweto oggi ospita al suo interno persone appartenenti a classi sociali differenti.

Per la precisione a Soweto sono presenti quattro classi sociali: la classe sociale medio-alta che, nonostante abbia migliorato il proprio tenore di vita, non abbandona questa zona e vive in belle villette, la classe media che vive in case unifamiliari, la classe bassa che vive in grezze e anonime case realizzate dal governo e la classe sociale molto bassa, appena al di sopra del livello di sopravvivenza, che vive nelle baracche di latta.

Una delle aree più interessanti da visitare è proprio quest’ultima, la nostra guida ha parcheggiato l’auto a bordo strada e dei bambini ci sono corsi incontro, urlando qualcosa per noi incomprensibile; ci hanno riferito che stavano dicendo “uomo bianco, uomo bianco” in lingua locale.

In effetti non capiterà loro molto spesso di vedere dei bianchi, pochi turisti si avventurano da queste parti e, in tutta Soweto, abita solamente una donna bianca, che vive qui perché sposata con un nero.

Un ragazzo che vive qui si offre per farci da guida all’interno della baraccopoli, si guadagna da vivere raccontando come si vive in questo posto; decisamente la vita in queste condizioni non è facile, la disoccupazione è alle stelle e cercare di cambiare la propria situazione è molto difficile.

Sull’ingresso delle case è dipinto un numero con la vernice, è la posizione che occupa la famiglia che vive lì, nella lista di attesa del governo per ricevere una casa in muratura.

Ci dice che gli abitanti sono arrabbiati con il governo, perché la costruzione delle case sta procedendo con una lentezza esasperante, ogni tanto scoppiano rivolte e manifestazioni, anche se, tutto sommato, sono espressioni pacifiche del malcontento e del disagio in cui vivono.

Facciamo un giro per le stradine sterrate e visitiamo anche una casa, in uno spazio di 40 metri quadri vivono in 8 persone; tutto sommato la casa internamente non è male, è arredata con mobili vecchi ma tenuti bene, c’è la luce elettrica, fuori dalla casa infatti ci sono dei fili, che provengono chissà da dove, che portano la corrente.

Le case non hanno l’acqua corrente però, la nostra guida ci mostra una pompa per estrarre l’acqua, dove gli abitanti vengono a rifornirsi; poco più lontano ci sono due latrine circondate dalla lamiera; quelli sono i bagni per tutto questo quartiere.

Quando stiamo per tornare sulla via principale passiamo accanto a una casa da cui proviene della musica, dentro ci sono dei ragazzi che si stanno divertendo e ballando e, quando ci vedono, ci guardano incuriositi e ci salutano.

Qualche donna ha un banchetto a bordo strada e vende oggetti realizzati con materiali di recupero, si guadagnano da vivere così; compriamo qualcosa, nella speranza che gli sia di aiuto e poi risaliamo in auto.

Durante una visita a Soweto non si può non andare a visitare l’Hector Pieterson Museum and Memorial che si trova ad Orlando West; questo museo è dedicato a Hector Pieterson, la prima vittima della rivolta di Soweto del 16 giugno 1976.

I bianchi volevano imporre l’afrikaans come prima lingua nelle scuole, anziché l’inglese, i ragazzi scesero in piazza per una manifestazione pacifica, ma la polizia aprì il fuoco e sparò sulla folla, uccidendo due ragazzi.

Nei giorni a seguire ci furono manifestazioni di violenza, represse duramente dalla polizia; alla fine ci furono diverse centinaia di morti tra gli abitanti di Soweto.

Il mondo venne a conoscenza di questi fatti solo grazie a un giovane reporter, che riuscì ad uscire dal Sudafrica, portando con sé un rullino di fotografie scattate durante la rivolta, e riuscì a mandarle alla stampa.

La visita al museo è molto interessante ed è toccante, non si possono però scattare fotografie; è un peccato che al negozio del museo non vendano un libro fotografico con una raccolta di foto esposte; in compenso vendono diversi libri scritti da Mandela e da altri personaggi che hanno combattuto per porre fine all’apartheid.

Poco distante si trova la casa di Mandela, al suo interno sono stati raccolti alcuni oggetti che gli sono appartenuti; per molti è quasi un luogo di pellegrinaggio, i bambini vengono qui in gita scolastica per scoprire dove viveva Mandela e per rendergli omaggio.

All’altro angolo della strada c’è la casa dell’arcivescovo Desmond Tutu che ebbe un ruolo fondamentale, insieme a Mandela, nella lotta contro l’apartheid; la sua casa però non è stata trasformata in un museo come quella di Mandela, ma è stata riassegnata ad un’altra famiglia, quindi c’è solo una targa sul muro che ricorda l’illustre ospite.

La giornata di oggi è stata intensa come intense sono le emozioni che Johannesburg ci ha trasferito; siamo molto contenti di averla visitata, anche se ci rendiamo conto che è stato solo un fugace assaggio.

Questa megalopoli ha mille volti e milioni di storie da raccontare, come spesso succede alle grandi città africane, non basterebbe una vita per poterle scoprire tutte.

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Etosha National Park: Etosha Pan - Photo Credits: Romina Facchi

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Our car! - Photo Credits: Romina Facchi

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Khama Rhino Sanctuary: Black Rhino - Photo Credits: Romina Facchi

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Kubu Island - Photo Credits: Romina Facchi

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Nxai Pan: Baines Baobab - Photo Credits: Romina Facchi

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Central Kalahari Game Reserve: Lion - Photo Credits: Romina Facchi

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Moremi Game Reserve: Leopard - Photo Credits: Romina Facchi

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San people - Photo Credits: Living Culture Foundation 

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Namibia: Mahango National Park - Photo Credits: Romina Facchi

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Etosha National Park: elephants - Photo Credits: Romina Facchi

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Swakopmund - Photo Credits: Romina Facchi

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Skeleton Coast: Ugab Gate - Photo Credits: Romina Facchi

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Windhoek - Photo Credit: Jbdobane

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Kgalagadi: Cheetah - Photo Credits: Romina Facchi

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West Coast National Park: Mountain Cape Zebra - Photo Credits: Romina Facchi

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South Africa: Hermanus - Photo Credits: Romina Facchi

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Cape Town: Waterfront - Photo Credits: Romina Facchi

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Karoo National Park - Photo Credits: Romina Facchi

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Our expedition - Photo Credits: Romina Facchi